Sicurezza delle costruzioni: riconoscere la pericolosità per diminuire il rischio

Il crollo del ponte Morandi a Genova avvenuto nell’agosto del 2018, con le scene apocalittiche che dai media sono finite nell’immaginario collettivo, ha innescato un dibattito serrato su sicurezza delle costruzioni, durabilità dei materiali, necessità di manutenzione. Tante persone hanno derivato una propria opinione, spesso a partire da titoli sensazionalistici dei giornali, da frammenti di dichiarazioni esperte o poco più, su temi molto tecnici e complessi all’incrocio tra l’ingegneria strutturale e la percezione del rischio. Abbiamo messo a confronto Antonello Ciccozzi, Professore associato di Antropologia Culturale presso l’Università degli Studi dell’Aquila (a), e Andrea Barocci, Ingegnere libero professionista (b).

Sicurezza delle costruzioni, ingegnere e antropologo a confronto

Cos’è il rischio? Cos’è la sicurezza?

Andrea Barocci. Antonello Ciccozzi, facciamo ordine: tu sei un antropologo che si occupa di percezione del rischio, io un ingegnere che si occupa di strutture. Nei giorni dopo il crollo del ponte Morandi a Genova mi sono trovato spesso in difficoltà, da tecnico, a spiegare a chi tecnico non è certi concetti come sicurezza, rischio, durabilità, manutenzione.

Ho sentito tante volte la frase “Quel ponte non era sicuro” assieme a “Lo percorrevo quattro volte al giorno”; la frase “Il ponte era progettato male” assieme a “Mancava la manutenzione”. Quando ascolto questi discorsi non riesco a dissociarli dal vizio del fumo: il fumatore sa benissimo che fumare fa male, gli viene ricordato anche su ogni pacchetto che compra, ma lo fa ugualmente.

Ho provato allora a dimenticare il mio lavoro, che mi fa avere una visione “dedicata” su questi temi, e a pensare come se fossi stato una sarta, un commercialista, un pensionato. Cos’è per me la sicurezza? Cosa il rischio? Qual è quel numero che, messo sulla bilancia, mi fa desistere dal fare una cosa oppure continuare a farla? Aiutami a capire queste cose.

Antonello Ciccozzi. Prima di tutto direi che il discorso che proponi sottende una linea sfocata di confine, quella tra senso comune e saperi esperti, che rimanda sia alle tematiche della percezione del rischio che a quelle dei saperi, nel nostro caso, tecnico-ingegneristici. Vi è da notare che il senso comune non è una forma di pensiero meramente irrazionale, ma rispetto alle forme di razionalità, diciamo, tecnico-scientifiche, presenta delle caratteristiche di prima di tutto di semplificazione, di tendenza al binarismo, alla monocausalità. Fatte queste premesse, per quanto riguarda il nostro discorso, aggiungerei che a livello di senso comune si tende a confondere il concetto di rischio con quello di pericolo, e a concepire la sicurezza, o, all’opposto, la pericolosità in termini binari.

Non esistono sicurezza o pericolo totali o nulli, se non asintoticamente: si tratta di concetti che rimandano a situazioni che non hanno un andamento discreto, binario, ma che si dispongono in una distribuzione gaussiana. Quasi sempre la sicurezza assoluta è un concetto ideale, e in un certo senso nemmeno del tutto auspicabile, in quanto il suo ottenimento porterebbe di fatto a una tendenziale o completa ibernazione della vita. Generalmente l’obiettivo di una politica di riduzione del rischio è massimizzare il livello di sicurezza entro soglie che definiamo accettabili, a partire da un orizzonte di senso socialmente condiviso con cui concepiamo quell’accettabilità (che è un concetto chiave nell’analisi del rischio).

Ad esempio, in via perlopiù implicita, seguitiamo a ritenere abbastanza accettabile che ogni anno muoiano in Italia più di tremila persone per incidenti d’auto. Lo ritentiamo tanto accettabile da non prendere misure drastiche: saremmo disposti a ridurre tutte le velocità massime, anche in autostrada, a 60km/h? o a 40km/h per essere ancora più sicuri? Non credo. Lo riteniamo, all’inverso, abbastanza inaccettabile, tanto quanto basta per trarre da ciò stimolo per innovazioni che migliorano la sicurezza (pensiamo all’evoluzione dei dispositivi di sicurezza sulle automobili). Quindi, come accennavo, l’accettabilità del rischio rimanda a convenzioni socialmente standardizzate, che variano da luogo a luogo e tra tempo e tempo, che tendono a stabilire culturalmente quali rischi si possono correre e quali no; tutto questo produce poi una reazione tecnica che stimola la ricerca d’innovazioni.

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Gli Stati Limite e il cittadino comune

B. Immagino che le scelte del Codice Stradale siano dettate da specifiche analisi che sinteticamente (e cinicamente) possiamo definire come “costi-benefici”; le Normative tecniche sulle Costruzioni applicano pienamente questo concetto. Soprattutto a partire dall’inizio degli anni 2000, con l’introduzione del metodo semiprobabilistico agli Stati Limite, la legge fornisce al professionista il valore di alcune azioni (sollecitazioni) alle quali la costruzione deve resistere: tali valori sono quelli dal legislatore ritenuti corretti, per il periodo storico e per la società che li dovrà applicare, sulla base di valutazioni economiche, etiche e di fattibilità tecnica. Ognuna di queste azioni ha al proprio interno una piccola percentuale di venire superata, ma costruire strutture che resistano ad azioni maggiori implicherebbe costi ritenuti troppo alti per la comunità (e non giustificabili appunto per coprire una bassa probabilità di accadimento).

Per esempio, uno dei parametri chiave per verificare un’opera strutturale è lo Stato limite di salvaguardia della vita (SLV): a seguito del terremoto, la costruzione subisce rotture e crolli dei componenti non strutturali ed impiantistici e significativi danni dei componenti strutturali, ma conserva una parte della resistenza e rigidezza per azioni verticali e un margine di sicurezza nei confronti del collasso per azioni sismiche orizzontali. In sintesi, la costruzioni si danneggia pesantemente ma consente ai suoi utilizzatori di salvarsi.

Non tutti i tipi di opere hanno però lo stesso grado d’importanza, quindi devono raggiungere lo SLV a condizioni differenti, cioè resistere a terremoti differenti; se prendiamo come parametro di riferimento un sisma d’intensità X, grossolanamente si può dire che:

  • L’abitazione (edificio ordinario, classe II) deve raggiungere lo SLV quando arriva il terremoto pari a X.
  • La scuola (edificio rilevante, classe III) deve raggiungere lo SLV quando arriva un terremoto pari a una volta e mezzo X. Quando le abitazioni si danneggiano, le scuole devono rimanere operative.
  • L’ospedale (edificio strategico, classe IV) deve raggiungere lo SLV quando arriva un terremoto pari a due volte X. Quando abitazioni e scuole si danneggiano, gli ospedali devono rimanere operativi.

Una volta chiariti questi concetti, il cittadino anche se non tecnico (o non ben informato dal proprio tecnico) deve essere consapevole che:

  • La propria abitazione, anche se nuova e appena costruita, è “autorizzata per legge” a danneggiarsi quando arriva un terremoto.
  • Tutti hanno la facoltà di scegliere abitazioni più performanti rispetto al minimo normativo (p.es. il Sig. Rossi Mario potrebbe chiedere al proprio ingegnere di progettargli una casa con lo stesso livello di sicurezza di un ospedale).

Questo è possibile, e lo si fa quotidianamente, per le nuove costruzioni; rimane il problema di tutto ciò che è stato realizzato prima del recente impianto normativo e, in particolare, a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘70 in un periodo in cui le leggi sulle costruzioni erano scarne e non avevano esplicitate le condizioni di cui abbiamo parlato sopra.

Sul DL Emergenze

Decreto Genova: tutti i contenuti del D.L. emergenze

Decreto Genova: tutti i contenuti del D.L. emergenze

Monica Greco, 2018, Maggioli Editore

Dal D.L. 109 fino alla legge 130/2018. Le misure per Genova, Ischia e i territori colpiti dal sisma, le opere pubbliche, l’ingegneria civile e i trasporti, la ricostruzione e il consolidamento di abitati e immobili.
Contiene:- Interventi urgenti per il sostegno e la ripresa economica del…


Rischio o pericolo? Che differenza c’è?

C. Poi, ci sarebbe da aggiungere, ci sono questioni semantiche che riguardano l’uso di certi termini che finiscono per affermarsi a livello di senso comune entro significati semplificati e a volte fuorvianti. Accennavo al fatto che termini come “rischio” e “pericolo” nel linguaggio comune vengono spesso scambiati; e questo ingenera confusione. Ciò anche perché si tratta di quasi-sinonimi, dove etimologicamente “pericolo” deriva da “rischio” (che a sua volta ha un’etimologia incerta). Più analiticamente, che differenza c’è tra rischio e pericolo? Iniziamo con il dire che il primo rimanda a un’eventualità, il secondo a una circostanza. Il primo esempio che faccio a lezione è questo: una curva è pericolosa se ha delle caratteristiche fisiche, e se è pericolosa è rischioso attraversarla in un certo modo (a una certa velocità).

Il rischio è l’eventualità di subire un danno, derivante dall’esposizione a un pericolo (e varia in funzione della vulnerabilità dell’ente esposto). Il rischio è un processo, un comportamento, uno stato; il pericolo è una condizione, una proprietà. In tal senso la pericolosità (che si oppone alla sicurezza) riguarda situazioni, materiali, fenomeni, enti, sostanze. Ci si mette in pericolo quando ci si espone a un rischio. Tra l’altro, tutto questo chiarisce che rischio e pericolo non sono termini assoluti, ma relativi; nel senso che dipendono dalla relazione che abbiamo con gli enti a partire dalle nostre caratteristiche. Mi spiego con qualche esempio: una curva diventa pericolosa quando passiamo dall’andare a piedi al percorrerla con l’automobile; una parete verticale è pericolosa per un umano, non lo è affatto per un ragno; o, meno che mai, per un uccello (già, ma a condizione che non vi impatti addosso).

Inoltre, qualsiasi discorso sul rischio è legato alla percezione, a partire da un principio: la percezione del rischio è in gran parte (o secondo alcuni paradigmi teorici, totalmente) costruita culturalmente: l’uomo è un animale culturale, ed è a partire da una consapevolezza culturale che comprendiamo la pericolosità di un qualsiasi ente o fenomeno. L’esempio che fai sul fumo calza a pennello: prima che la scienza arrivasse a definire chiaramente la pericolosità del fumo di sigaretta, le persone erano più esposte al rischio di contrarre tumori al polmone a causa di questa abitudine; per molti tuttavia questo rischio ormai noto resta accettabile rispetto al piacere del vizio, alla dipendenza. Ciò in un panorama di accettabilità dove, non del tutto paradossalmente, anche lo sfidare questo rischio può far parte del piacere stesso. Si fuma non sono solo nonostante faccia male, ma anche perché fa male, perché il fumo di tabacco è un blando veleno che attiva una circostanza in cui qualcuno può trarre beneficio dall’accettazione della sua pericolosità.

Che vuol dire? vuol dire che con il rischio spesso facciamo i “surfisti”: ne cavalchiamo l’onda, in equilibrio accettabile tra sicurezza e pericolo; e questo avviene più spesso di quanto pensiamo. Accennavo comunque al fatto che un pericolo non segnalato rappresenta una fonte di esposizione al rischio maggiore di un pericolo segnalato. La necessità di un’antropologia del rischio sta tutta qui: approdare a una comprensione intersoggettiva della pericolosità (questa è una precondizione per mettere in campo politiche e strategie cogenti orientate alla messa in sicurezza). Insomma, questi concetti rimandano sempre a una dimensione combinatoria, che si scontra con la tendenza di senso comune a ragionare in termini monocausali. Un paio di formule di base possono aiutare a chiarire la questione[1]:

  • RISCHIO (R) = probabilità che si realizzi un evento pericoloso (P) combinata con la gravità del danno (D).  R=PxD
  • RISCHIO (R) = ESPOSIZIONE, volontaria o meno (E) A FONTI DI PERICOLO pericolo= possibilità di danno (P); è da intendere in funzione delle condizioni di VULNERABILITA’ (V) del soggetto esposto (ossia la sua propensione a subire danni). R=PxVxE (Rischio = Pericolosità x Vulnerabilità x Esposizione)[2].

Il punto è che anche a livello di saperi esperti c’è spesso poca conoscenza o preparazione rispetto a questioni di percezione del rischio, che restano confinate a una sorta di spontaneità, di folklore della comprensione; e questa impreparazione è un fattore chiave che contribuisce all’esito disastroso di molte situazioni di rischio. Per chiarirci: pericoli più insidiosi sono quelli non riconosciuti come tali: una fontana avvelenata è più pericolosa se non c’è scritto “non bere” (se manca una corretta segnalazione di pericolo), o pericolosissima ce c’è scritto “acqua potabile” (se è presente un’erronea segnalazione di non pericolosità).

Il punto sta tutto qui: riconoscere la pericolosità per diminuire il rischio. Si tratta di un atto che sta a cavallo tra una dimensione tecnica e una culturale; e ci si cura poco di costruire “ponti” (lo metto virgolettato, perché parlo di ponti simbolici, di connessioni interdisciplinari[3])  tra queste dimensioni. Quindi siamo di fronte a due assi interpretativi, quello tra saperi esperti e senso comune; e quello, interno al primo ma non completamente, tra saperi tecnici (matematico ingegneristici) e saperi umanistici (psico-socio-culturali).

Le formule: come applicarle alla realtà?

Va poi compreso qual è il senso e, soprattutto, l’uso dentro il discorso scientifico umanistico di formule combinatorie come quelle appena accennate. La questione riguarda le procedure categoriali che si mettono in campo per costruire gli oggetti di qualsiasi discorso scientifico. In merito va chiarito che se i saperi tecnici e scientifico-naturali si fondano primariamente sulla scrittura simbolico-numerica, le scienze umane poggiano più su dispositivi retorici di messa in discorso dei saperi. Semplificando: da un lato vi sono (primariamente) formule, dall’altro (primariamente) parole[4]. Tuttavia, così come il discorso tecnico ha esplicito ed esteso bisogno di supporti retorici (non esistono libri di matematica senza parole atte a connettere e a dare senso alle formule), il discorso umanistico ha implicito bisogno di supporti tecnici (la retorica senza logica e senza un’epistemologia di fondo si riduce a pseudoscienza priva di fondamento).

Vale a dire che in ambito scientifico umanistico è raro trovare formule esplicitate, ma la consapevolezza di esse è non solo utile, ma si configura come un fondamento tanto rado e sottinteso quanto indispensabile a guidare l’analisi su un piano epistemologico concreto. Non è necessario dichiarare certe formule in modo puntuale e ricorrente, ma è opportuno comprenderle, tenerle a mente come bussola di orientamento, come base di una metafisica latente che cerchi un fondamento capace di andare oltre le semplificazione e le suggestioni di senso comune. Questo considerando che in ambito umanistico è meno frequente trovare la tendenziale omogeneità epistemologica degli statuti di verità che sono presenti in ambiti tecnici: i paradigmi sono più sfocati e suscettibili al peso della plausibilità e a una certa malleabilità interpretativa. Tornando al nostro caso, tutto questo vuol dire che i discorsi umanistici sul rischio, che aspirino ad essere concretamente scientificamente fondati, devono prevedere una consapevolezza multifattoriale e un approccio combinatorio.

Riprendiamo l’ultima formula vista, quella che ci dice che il rischio (R) è dato dalla combinazione tra il pericolo (P), la vulnerabilità (V) e l’esposizione (R=PxVxE). Ad esempio, volendo coniugare questa formula astratta in una situazione concreta, possiamo calarla in un merito al rischio sismico; in tal senso i danni, la distruttività, la disastrosità complessiva di un fenomeno come un terremoto è data dall’agente d’impatto (l’entità fisica del sisma che determina la sua pericolosità), le caratteristiche costruttive degli edifici (la loro vulnerabilità) e dalla posizione degli individui al momento della scossa (il trovarsi all’aperto, dentro edifici sicuri o vulnerabili).

Questo ci fa capire che la gente muore a causa dell’accelerazione prodotta dalla scossa, dei limiti di resistenza degli edifici e del trovarsi o meno dentro ad essi al momento della scossa; e a uccidere non è solo uno di questi fattori, ma la loro necessaria combinazione. Dedicai tempo a questi ragionamenti, avendo lavorato come consulente per l’Accusa al processo dell’Aquila alla Commissione Grandi Rischi, per spiegare che, diversamente da quanto semplifica una sorta di proverbio sismologico molto diffuso tra gli esperti del settore che recita che “ad uccidere non sono i terremoti ma le case”, l’analisi del rischio ci fa comprendere che quel detto, singolarmente diffuso in ambienti sismologici, sottende una semplificazione monocausale e tendenzialmente pseudoscientifica, in quanto ad uccidere sono i terremoti, le case e il trovarsi dentro di esse durante la scossa[5].

A voler coniugare queste formule generali nello specifico del caso del crollo del ponte Morandi a Genova, potremmo definire la pericolosità come una costante, data dall’altezza del ponte, la vulnerabilità potrebbe essere riferita alla tenuta strutturale della costruzione e l’esposizione si potrebbe intendere nella ventura di trovarsi o meno sul ponte al momento del crollo (nel senso che chi percorre il ponte quotidianamente per andare al lavoro è più esposto, ad esempio). Da una differente prospettiva – centrata meno sulle persone che sulle strutture – potremmo invece inquadrare la pericolosità in funzione della capacità di carico della struttura, la vulnerabilità in funzione della sua deperibilità nel tempo, e l’esposizione rispetto alla presenza di agenti ambientali capaci di cagionare una perdita della tenuta strutturale.

Dico questo per mettere in chiaro che la declinazione di queste formule rimanda a una più o meno ampia componente interpretativa: dipende dal modo in cui s’intendono le variabili che le compongono, in cui mettiamo in atto le procedure di oggettivazione che sottendono la comprensione di questi fenomeni. Come pure è chiaro che da una prospettiva strutturale la vulnerabilità varia nel tempo in funzione dell’esposizione (un complesso che, nella prima coniugazione proposta di quella formule, ricade invece tutto nella dimensione della vulnerabilità).

Il punto è che, a prescindere da come costruiamo questi modelli di valutazione, resta centrale la questione della multifattorialità nella comprensione scientifica dei fenomeni di rischio (soprattutto come antidoto alla tendenza del senso comune a semplificare e a cercare spiegazioni monocausali); e risulta evidente il ruolo chiave della vulnerabilità per comprenderne l’andamento.

Pericolosità, esposizione, vulnerabilità: il loro peso non può essere variabile

B. Qui ti devo interrompere perché, da ingegnere, la visione non è chiara come tu la illustri dal tuo punto di vista. È appurato che il rischio si compone di tre fattori: pericolosità, esposizione e vulnerabilità: non ci vedo però la possibilità di scegliere liberamente il peso (o la definizione) dei singoli componenti e quindi “cambiare prospettiva”.

Riprendendo il tuo esempio specifico sul ponte di Genova, a mio avviso la pericolosità è data dalle massime azioni (esterne o interne) che deve sopportare, l’esposizione è data dalle persone e dall’economia coinvolte in un suo crollo (se il ponte fosse crollato in un deserto, o se esso non fosse stato necessario per tutto il traffico del porto, lo scenario dopo il 14 agosto sarebbe stato diverso), la vulnerabilità è data dal suo livello di sicurezza nei confronti della pericolosità.

Una definizione univoca è l’unica possibilità per la Normativa Tecnica delle Costruzioni ed è l’unica maniera che ha lo Stato per provare a fare Leggi che siano il meglio possibile per la società che ne è governata, in quel periodo storico e con quelle conoscenze.

Il rischio visto da cittadini

E questo mi dà la possibilità di tornare a una questione precedente. Concordo pienamente con il fatto che non esiste il rischio nullo né la sicurezza assoluta, ma questo secondo me non significa che un qualsiasi cittadino sia tenuto a saperlo, in riferimento a specifici contesti.

Il ponte era stato costruito “a norma di legge”, perchè quando lo percorro la mattina dovrei essere consapevole di un rischio che sto correndo? Dovrei essere consapevole che se parlo al cellulare mentre guido rischio di fare un incidente, oppure che potrebbe esserci ghiaccio, oppure che qualcuno mi tamponi… Questo è il rischio che qualsiasi cittadino dovrebbe essere conscio di affrontare, proprio come l’esempio delle sigarette. Ma un ponte no, non credo sia nella mentalità di nessuno: un’opera costruita dall’uomo per l’uomo, con apposite normative, non mi deve dare, come cittadino, l’idea di rischio. Se quell’opera è stata realizzata, esiste affinché qualcuno la utilizzi, e nella mia mente deve essere sicura e non mi può sfiorare il dubbio che non lo sia, altrimenti viene a mancare qualcosa nel rapporto tra Stato e Cittadini. Scopo dei Giudici, in questo caso specifico, sarà appunto stabilire perché questa certezza che dovrebbe esserci è stata disattesa, e chi ne è il responsabile.

Diverso è il caso della mia abitazione, dove non posso esimermi dall’evitare che si generi un rischio, e dal tentare di ridurlo nel caso in cui ne prenda atto. Se la mia abitazione ha una trave particolarmente ammalorata, non posso fare finta di nulla, così come se il mio condominio è stato costruito in assenza di norme antisismiche e ora la zona è stata classificata come sismica. Ho preso consapevolezza di un rischio, mi muovo per ridurlo. La stessa cosa non può accadere (né ha senso che accada) su opere come le infrastrutture di cui io cittadino sono solo un fruitore e le faccio rientrare nel “pacchetto dei servizi” che il Governo mette sul piatto per il buon funzionamento della nazione.

Ovviamente da Ingegnere so che parte di quello che ho scritto è opinabile, ma da cittadino non posso accettare di pensare in termini di rischio un ponte.

C. Figuriamoci. Non si tratta di scegliere in totale libertà peso e definizione dei componenti, in uno scenario di aleatorietà assoluta: si tratta, per non confondere tra sistemi (i fenomeni) e modelli (le loro rappresentazioni), di comprendere la questione dell’oggettivazione, o meglio dei meccanismi generativi che sottostanno alle procedure di oggettivazione (gli oggetti del ragionamento scientifico sono enti e fenomeni unicamente “da cogliere” attraverso un processo di conoscenza, sono totalmente dati o vi è una componente di costruzione degli stessi che riguarda i percorsi interpretativi con cui arriviamo a conoscerli?).

Questo per uscire da un’illusione proto-positivista dell’oggettivismo assoluto, e riconoscere che quando definiamo degli oggetti scientifici vi è una certa componente di costruzione degli stessi anche a partire dalla loro definizione (che può essere minima e ininfluente o meno). Il tutto senza rovesciare certi residui di oggettivismo assoluto scientista di stampo novecentesco e di eredità positivistica in postmoderne forme di costruttivismo radicale – in cui si ammicca ad eccessi di relativismo di aleatorietà, d’indeterminismo che spesso lasciano, giustamente, i tecnici abbastanza interdetti – ma nella consapevolezza che la scientificità rimanda sempre a una certa componente di approssimazione, posizionalità, errore, costruzione[6]. D’altra parte nel nostro caso lo stesso modo in cui definisci, ad esempio, la vulnerabilità mostra come la scelta delle variabili e dei valori che gli assegniamo può contemplare una qualche dose di posizionalità, di prospettivismo, di interpretazione.

Questo per dire che l’oggettivismo assoluto spesso è poco altro che un buon riduttore di complessità, se non una scorciatoia anch’essa in fondo pseudoscientifica che si presta bene per usi politici, in una realtà che tentiamo di cogliere e che è sempre un po’ più caotica di quella delle meccaniche celesti (o di come le immaginiamo). Dobbiamo capire che quando affermiamo “la scienza dice questo, quindi questo è reale” i rischi di un uso sociale, politico, ideologico dei saperi scientifici sono molti, è alto il rischio di ridurre la scienza a una forma paradossale di magia funzionale all’affermazione governamentale di verità assolute.

Ovviamente, se in settori scientifici come la climatologia questa faccenda risulta più evidente, nel mondo dell’ingegneria strutturale tutto ciò riguarda dettagli per così dire asintotici e irrilevanti ai fini progettuali; in un necessario cammino verso la precisione, la riduzione dell’aleatorietà all’insignificanza; ma c’è sempre uno scarto che va considerato, e che tende a diventare tutt’altro che insignificante quando si parla di rischio e di fattori socio-culturali e politico-economici. Ciò senza pretendere di intavolare un discorso di filosofia della scienza ma solo per dire che in molti casi la prospettiva – variamente – conta, e questo vale soprattutto quando si parla di rischio.

Per il resto, intendiamoci, fornire alla cittadinanza indici di rischio per qualsiasi cosa si rivelerebbe una scelta politica oltre che poco praticabile, del tutto nefasta, scoprendosi come un’ossessione al limite della paranoia. Il punto è che per mantenere un clima di fiducia (nelle istituzioni e verso i tecnici) questa consapevolezza sul rischio dovrebbe però necessariamente riguardare la dimensione dei saperi esperti e, quindi, quella dei decisori politici.

In questo senso il piano della valutazione (da parte degli esperti) non deve essere confuso con quello della comunicazione del rischio (alla popolazione), questo in funzione della decisione (politica) circa l’approntamento d’interventi di messa in sicurezza e/o di comunicazioni di messa in allerta della popolazione. Ciò in base al fatto che, una volta diagnosticata una situazione di rischio, si deve intervenire riducendo la vulnerabilità e/o l’esposizione. In questo senso si tratta di capire come e quando comunicare valutazioni esperte di rischio, e a chi (alla popolazione? ai decisori?).

Cos’è la carbonatazione?

Il cemento ha la data di scadenza, come lo yogurt

Venendo invece allo specifico del disastro di Genova, mi pare il caso di chiarire che l’evento mi ha colpito particolarmente in quanto qualche anno fa mi sono occupato di questioni legate al cemento, alle cornici culturali che orientano i suoi usi sociali, da una prospettiva dell’antropologia dell’abitare, in merito alla ricostruzione post-sismica aquilana e a un’analisi culturale della tendenza a “com’era dov’era”[7]. In quella circostanza venni a conoscenza del fenomeno della carbonatazione; così a qualche ora dal crollo del ponte Morandi, sullo sfondo di un televisore acceso che ne reiterava insistentemente l’immagine, ho lasciato sul web delle righe dove inquadravo la questione della vulnerabilità del cemento armato nel processo di carbonatazione, non tanto in riferimento alla tragedia specifica appena avvenuta, ma soprattutto pensando allo scenario del patrimonio infrastrutturale italiano; righe che hanno suscitato la tua attenzione, e che riporto per intero:

“Saranno giorni di ricerca di colpevoli, in una gara social al ribasso cognitivo; ma qui la corruzione riguarda, forse prima di aspetti tecnico-politici, anche una faccenda totalmente materiale: il cemento armato. E non si tratta di una questione che resta confinata nell’ingegneria, ma di un fatto sociale totale per l’Occidente, un fatto cioè che investirà a breve tutti gli ambiti del nostro vivere, in modo decisivo. Probabilmente le inchieste appureranno il contributo e il peso di tare costruttive e di manutenzione, ma ponte di Genova, dopo aver svolto il suo dovere per mezzo secolo, è crollato anche perché il cemento armato – l’invenzione con cui abbiamo costruito l’impalcatura della modernità – invecchia. Il cemento armato si è rivelato non il materiale miracoloso ed eterno che immaginava Le Corbusier, ma una bomba a orologeria.

Da poco sappiamo che è tremendamente vulnerabile, lo è alla radice della sua chimica, a causa della carbonatazione: con il tempo il metallo si ossida, aumenta di volume e lesiona il calcestruzzo. Ha la data di scadenza, il cemento armato. Se le strutture in pietra dei romani ci hanno dimostrato di saper durare come il miele, pressoché all’infinito storico, il nostro calcestruzzo armato è più simile al latte; scade abbastanza presto, troppo presto. Certo, c’è cemento armato e cemento armato, come pure negli anni il cemento armato è migliorato; ma questo materiale non dura che qualche decennio, decennio più decennio meno: poco più di nulla di fronte alla storia. Domina lo spazio il cemento armato, ma ha un serio problema con il tempo. Un serio problema che con il tempo sta emergendo. Tutto l’Occidente moderno, quello nato urbanisticamente dopo il secondo dopoguerra con la quantità e la qualità del cemento armato degli scorsi decenni, inizia a diventare, praticamente in blocco, infrastrutturalmente fatiscente: una miriade di viadotti, tutti i palazzi e palazzoni delle cinte periferiche delle grandi e piccole città, tutto.

Il cemento armato è la migliore metafora del nostro rapporto con la modernità: la immaginavamo più solida, la storia ci sta mettendo pochissimo tempo a svelarcela invece assai fragile; questa verità tremenda non riusciamo ad accettarla, così la rimuoviamo e cerchiamo capri espiatori. Ora non conosciamo il peso della carbonatazione in questa catastrofe, ma ponte di Genova è l’inizio: data l’importanza, funzionale e simbolica, della struttura è la prima manifestazione macroscopica di un problema generale di degradazione infrastrutturale. Mentre, a suon di metafore, litighiamo tra chi vuole rinforzare muri e chi vuole costruire ponti, dovremmo pensare a preparare tanti ponteggi. Reali”.

A rileggere ora queste considerazioni mi rendo conto che a mia volta questo discorso va fatto con prudenza, se non altro perché può scivolare verso il rischio di porgere il fianco a semplificazioni e a criminalizzazioni monocausali del cemento armato, che così rischia di trasformarsi in una sorta di capro espiatorio e fare la fine dell’amianto, che è passato nel giro di qualche anno dallo statuto scientifico di materiale miracoloso a quello – ancora più scientifico tanto da rivelare a posteriori la pseudoscientificità della prima convinzione – di materiale mortale (questo tanto per ribadire che bisogna sempre fare attenzione a chi non si accorge che le verità scientifiche hanno meno a che fare con la fissità, l’assolutezza, che con la processualità, la storia).

Per cui, a questo punto, ti chiedo: quali sono i dettagli tecnici di questo processo di carbonatazione? In che misura, da un punto di vista strettamente ingegneristico strutturale, dovremo fare i conti con esso? Dove queste mie considerazioni a caldo sono condivisibili? Dove andrebbero ponderate e corrette? Date le caratteristiche delle infrastrutture italiane, c’è ragione a lanciare un serio allarme? Dove è che si rischia di sfociare nell’allarmismo? Viceversa, un eccesso di titubanza non potrebbe tradursi in un rassicurazionismo con conseguenze nefaste per i prossimi decenni o anni?

I dettagli tecnici della carbonatazione

B. Io credo che il cemento armato sia stato, effettivamente, il materiale miracoloso di Le Corbusier, o di Nervi, altrimenti molta Italia non avrebbe potuto essere costruita. L’errore è stato crederlo eterno!

Purtroppo, il confronto con le opere Romane balza all’occhio; il paragone non è banale, ma non è neppure tecnicamente corretto. Quando si facevano i ponti di pietra non c’erano navi portacontainer che dovevano passarci sotto, le città non erano attraversate da camion da 60 tonnellate, non c’era l’alta velocità. Posare pietra su pietra, per quanto possa essere affascinante, ha permesso di far crescere l’impero Romano, ma sicuramente non farebbe crescere la nostra società del 3° millennio; poi, concordo con te che il fascino del ponte di pietra può essere una chiave di lettura per il problema “durabilità” delle opere in calcestruzzo.

Ogni opera deve essere progettata in funzione della sua vita di servizio, studiandone anche le manutenzioni progressive nel tempo, ed è errato associare a priori la durabilità del materiale con la sicurezza di una costruzione. Opere come il ponte Morandi, progettate 50 o 60 anni fa, erano sotto molto aspetti innovative; a ciò si aggiunge che normative tecniche e flussi di traffico non erano quelli odierni, e anche la conoscenza dei materiali non era quella che abbiamo adesso.

Le moderne normative per le costruzioni esigono che la durabilità dell’opera sia tenuta in conto sin da principio, associandola alla durabilità e scelta dei materiali, e alle progressive manutenzioni pianificate affinché la durabilità stessa sia garantita.

Oggi, se un ponte deve durare 100 anni, tale ipotesi è la prima che entra nelle condizioni di calcolo e verifica e diventa irrilevante ai fini della sicurezza il materiale con cui l’opera sarà realizzata; ciò che cambia saranno solo i diversi piani di manutenzione associati ai diversi materiali. Tutti i materiali sono idonei, purché ben progettati, realizzati e mantenuti; ovviamente poi ogni materiale ha caratteristiche diverse che lo portano a essere più performante su certe tipologie strutturali piuttosto che su altre.

La carbonatazione che tu citi è una delle forme di degrado del cemento armato, molto evidente soprattutto in strutture vetuste e situate in ambienti aggressivi come quelli marini (per via della salsedine); quando il calcestruzzo ha iniziato a svilupparsi questo fenomeno non era così noto, ora ne conosciamo tutti gli aspetti e siamo in grado di gestirlo. Il problema chiaramente rimane per tutte quelle opere (abitazioni o infrastrutture) costruite cinquant’anni fa o più, quando conoscenza e tecnologia non erano quelle di oggi.

In particolare per i ponti, il nostro paese ne ha migliaia in cemento armato con qualche decina di anni sulle spalle; e il problema è molto più politico che tecnico.

Per prima cosa, e ti assicuro che è la parte più difficile, è necessario che sia effettuata una “valutazione di sicurezza”; per fare questa non bastano le foto di un passante che vede dei ferri arrugginiti (ultima moda dei social) ma occorrono tecnici esperti, laboratori di diagnostica e diverse decine di migliaia di euro. Qui non stiamo parlando di Società Autostrade per la quale i ponti sono una fonte di reddito, e che quindi all’interno del quadro economico dovrebbe tenere conto anche della conoscenza e del mantenimento della sicurezza; qui si parla di ponti necessari per la vita in un territorio, e per i quali le Amministrazioni Comunali spesso non recuperare nei piani triennali neppure i soldi necessari per la valutazione della sicurezza appunto, tra l’altro obbligatoria dal 2003

Quando si parla di queste tematiche non vi è una ricetta nè soluzioni semplici. Altro aspetto di cui tenere conto: una volta che sia riscontrata una carenza, occorre intervenire. E intervenire implica montagne di soldi oltre a disagi sociali non indifferenti; non dimentichiamo che operare su un ponte significa spesso separare comunità e territori e creare enormi problemi di viabilità e disagi per lungo tempo. Anche se dal cielo piovessero tanti soldi da regalarci tutti i ponti nuovi, rimarrebbero i disagi per la loro realizzazione.

Purtroppo solo negli ultimi anni le normative si stanno orientando verso modalità virtuose. Si progetta un’opera che dovrà avere una durata di tot anni e se ne prevede un costo. A questo costo si devono aggiungere, già all’origine, le spese di manutenzione costante per fare in modo che l’opera arrivi a termine della sua vita utile con il medesimo grado di sicurezza di quando è stata realizzata. A termine della vita utile occorre fare un’analisi costi benefici e decidere se abbatterla o intervenire per prolungarne la durata.

Concordo comunque con l’ultima parte: il crollo di Genova ha avuto, purtroppo per la gravità del disastro, il merito di accendere prepotentemente il faro su queste problematiche. I crolli di infrastrutture negli ultimi anni sono stati abbastanza frequenti ma molto circoscritti a livello mediatico; il ponte Morandi ha invece mandato un segnale chiaro.

Tornando però all’inizio della nostra chiacchierata, rimango dell’idea che se fossimo cittadini più consapevoli e preparati sarebbe più semplice comprendere certe notizie e sarebbe più difficile fare il giornalista.

Genova: cos’hanno fatto sono i tecnici veri fino al giorno prima?

C. Certo, il problema però qui non sta tanto nell’aver errato a credere il cemento eterno, ma nel fatto che esso a volte si rivela fin troppo effimero, soprattutto in assenza di manutenzione, e di fronte al fatto che il progresso scientifico inesorabilmente evidenzia che quelli che, come accennavo prima, entro gli orizzonti cognitivi di una certa epoca storica potevano apparire come miracoli tecnologici, col senno di poi si scoprono carichi di tare di vario tipo. Inoltre permettimi una provocazione: il giorno dopo il crollo del ponte Morandi tutti esperti: sui social media l’ingegneria strutturale ha vissuto momenti da “Gazzetta dello sport” ai mondiali di Calcio, dove in tutti i bar tutti sono più esperti dell’allenatore della nazionale e sanno, tanto tacitamente quanto rigorosamente a posteriori, cosa andava fatto. Però per uscire dal gioco tragicomico degli “esperti del giorno dopo” bisognerebbe anche chiedersi dove sono e cosa fanno gli esperti, quelli veri, fino al giorno prima, o meglio, perché non fanno, o almeno non fanno abbastanza.

La questione è meno peregrina di quello che potrebbe sembrare in quanto implica altri due concetti chiave dell’analisi del rischio, quello di “periodo d’incubazione della catastrofe” e quello di “nemici invisibili”: le competenze esperte hanno senso solo se messe in gioco prima del verificarsi degli eventi catastrofici, ossia nel periodo d’incubazione della catastrofe, grazie alla capacità cognitivo-interpretativa d’individuare i fattori di rischio che sfuggono al senso comune. Genova dimostra in modo tragicamente empirico che questo non è successo; rivela una carenza che non riguarda solo questioni strutturali ma anche di analisi del rischio, e temo che si possa trattare di un caso tutt’altro che unico.

Adesso, sulla scia di attenzione collettiva prodotta dal crollo del ponte di Genova, nei social media è esploso un flame sulla fatiscenza della rete autostradale nazionale, con particolare enfasi sui viadotti delle autostrade A24 e A25, questa attenzione dal basso è solo isteria collettiva? O rivela specularmente una certa disattenzione da parte dei saperi esperti e dei decisori politici?

B. Credo che entrambe le ipotesi possano essere ritenute valide, e direi che proprio il caso dell’A24 ne è un esempio.

Di certo da metà agosto si sono moltiplicate a dismisura le segnalazioni su infrastrutture “a occhio” non sicure: in sostanza utenti di social armati di cellulare si sono concentrati nel fotografare calcestruzzo ammalorato e ferri arrugginiti appartenenti a ponti in giro per l’Italia. Il giudizio è fatto appunto “a occhio”, senza alcuna valutazione tecnica o consiglio di esperti del settore (ho trovato numerosi casi di giunti di dilatazione che diventavano pericolosissime crepe).

In parallelo, c’è stata sicuramente poca oculatezza nelle parole di quelli che tu citi come “decisori politici”; mi riferisco in particolare al Ministro Toninelli, che il 15 ottobre dichiara “Alcuni piloni dei viadotti della A24 e A25, che ho potuto visionare con i miei occhi, sono in condizioni così degradate da risultare allarmanti”. Premesso che il Ministro delle Infrastrutture e Trasporti è la figura più alta in carica avente titolo per esprimere giudizi sui ponti, è evidente che ogni sua parola in merito è molto pesante e si porta dietro una serie di conseguenze. In questo caso a mio avviso la società Strada dei Parchi si è assunta una grande responsabilità nel mantenere aperta l’autostrada dopo che il Ministro in carica l’ha di fatto dichiarata pericolosa; d’altra parte il suddetto Ministro in carica non ha prodotto alcuna documentazione a supporto della propria affermazione, ma pare si sia fermato a un esame “a occhio” di quelli sopra citati.

Il Ministro: tra inviato di rotocaclo e il commentatore web medio

C. La vicenda del ministro è sorprendente, in quanto un decisore politico apicale si è sostanzialmente accomodato in un habitus sensazionalistico e in fondo de-responsabizzante, tra inviato di rotocalco scandalistico e commentatore web medio,  accontentandosi di comunicare senza filtri all’intera nazione una diagnosi, tanto estrema quanto dilettantistica, di rischio. Un comportamento che lascia intravedere una sorta di riflesso condizionato da smarcamento, dove il gridare al disastro imminente pare in qualche modo possa sostituire la concreta, esaustiva e meno plateale pianificazione di interventi  di riduzione del rischio concreti, efficienti, estesi e duraturi. Si ha l’impressione che, nel peggiore dei casi, si faccia affidamento più su un eventuale “lo avevo detto”, in oscillazione tra futuro e passato, che su interventi e decisioni, coniugati al presente, di riduzione della vulnerabilità e di diminuzione dell’esposizione.

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La sensazione è stata quella di aver assistito, più che a una politica di messa in sicurezza delle infrastrutture, a una performance in cui si tenta di mettere in sicurezza la propria posizione personale, finanche andando in deroga rispetto al proprio ruolo. Sperando che qualcosa cambi, va notato che al momento abbiamo viadotti dichiarati sostanzialmente in procinto di crollare; che seguitano ad essere percorsi, mentre sono “rafforzati” poco altro che da blandi ripieghi precauzionali e propositi di intervento. Il tutto supportato dalle proteste dei politici abruzzesi che, preoccupati per i danni economici cagionati da un calo della circolazione sugli assi A24-A25, gridano all’allarmismo senza chiedersi se tale atteggiamento possa sottendere un rassicurazionismo consolatorio di fronte all’eventualità tremenda di un disastro – il crollo di un viadotto autostradale – che soprattutto per L’Aquila significherebbe piombare nell’isolamento, e quindi ritrovarsi sostanzialmente in un secondo terremoto.

L’utilizzo del rassicurazionismo

In generale, nei casi di cui stiamo parlando, il rischio si affronta o riducendo la vulnerabilità attraverso la manutenzione o, purtroppo, riducendo la percezione della pericolosità attraverso processi psico-sociali di rimozione collettiva; ossia facendo, magari in modo inconsapevole, rassicurazionismo. Il rassicurazionismo – la tendenza istituzionale a rappresentare dogmaticamente come non pericolose delle situazioni che dovrebbero suscitare molti dubbi – è una strategia istituzionale e probabilmente una necessità biopolitica più pervasiva di quanto possa sembrare[8]. Basti pensare a quello che succede con il climate change, dove una parte consistente della comunità scientifica arriva a negare del tutto l’esistenza di questo fenomeno; dove la scienza si spacca in due, rivelando così il suo vacillare di fronte alla pretesa di incarnare certi sempre umanamente anelati ideali di pura verità e oggettività assoluta, una certa malcelata tendenza a farsi condizionare da fattori politici, ideologici, economici. Temo che qualcosa di simile potrebbe presto riguardare anche questioni di endemica fatiscenza strutturale del cemento armato.

A mio parere sarebbe il caso di uscire dalla prospettiva implicita della rimozione psicosociale delle situazioni di rischio, e farsi carico di una presa di consapevolezza che sensibilizzi nei confronti della necessità di programmi nazionali (e internazionali, ovviamente) di manutenzione. Lo dico anche nella consapevolezza del bisogno di prestare attenzione affinché non si sfoci nell’allarmismo; questo considerando che attualmente tale tendenza è acuita dai mediaweb, dove, in una situazione di perenne sovraccarico d’informazioni, si produce un’ecologia delle notizie in cui il sensazionalismo si rivela quale strategia adattiva vincente nel breve termine, rispetto alla finalità di “stare a galla” nel flusso alluvionale di significati collettivi. Questo almeno per qualche giorno, finché la semiosfera non sarà invasa da una nuova notizia mainstream, che relegherà immediatamente al dimenticatoio l’evento che prima aveva attenzionato chiunque, con tutte le conseguenze del caso.

Quale dovrebbe essere il ruolo del cemento armato?

Aggiungerei anche che il cemento armato è assai più di un insieme di progetti e di realizzazioni: esso è uno degli elementi infrastrutturali fondamentali della modernità: la maggior parte delle persone che si trovano in Occidente, o nelle parti modernizzate del globo, nascono, vivono e muoiono nel cemento armato. Forse in futuro troveremo materiali alternativi, più performanti e sostenibili, non solo per le piccole ma anche per le medie e grandi strutture; ma attualmente, mi pare di capire, dal cemento armato dipendiamo in larga misura.

In tal senso, prendendo in prestito una definizione del celebre sociologo Marcel Mauss, il cemento armato andrebbe considerato alla stregua di un “fatto sociale totale” [9], ossia qualcosa che coinvolge la vita collettiva nella sua interezza, in tutti i suoi aspetti, che è in relazione con tutto, e rispetto a tutto si pone in qualche modo come pre-condizione. Perciò il cemento armato parte dall’ingegneria e arriva alla cultura passando per la società. Per questo penso che la questione della fatiscenza del cemento armato dovrebbe – senza sfociare in demonizzazioni in opposizione a chi ne fa un materiale sacro – diventare centrale nelle agende politiche dei prossimi anni. Anche qui, in definitiva, ricordiamoci che diminuire la percezione del rischio aumenta la pericolosità; ricordiamocene al fine di uscire dalla tentazione del rassicurazionismo, magari come degenerazione originata dalla buona intenzione iniziale di evitare che l’allarmismo contagi l’opinione pubblica.

Insomma, andrebbe pensato un percorso di sensibilizzazione sociale per far comprendere che il cemento armato non è solo un insieme di infrastrutture che, una volta costruite, si prendono cura della nostra quotidianità garantendo una serie di aspetti dell’abitare e del circolare, ma anche qualcosa di cui bisogna prendersi cura, costantemente; qualcosa con cui fare i conti prima che, come è avvenuto a Genova, ci presenti il conto. Mi viene in mente la lezione di Tim Ingold, uno dei più grandi antropologi dell’abitare, che ci fa comprendere che la “forma finale” è, a ben vedere, un’astrazione, un’approssimazione, una convenzione: il costruire è un processo che, lungi dall’iniziare con un progetto preformato e concludersi con un artefatto finito, in qualche modo continua, seppure in modalità e intensità differenti, per tutto il tempo che un ambiente viene abitato[10]; e questo vale anche per il cemento, l’elemento mi pare quali-quantitativamente primario in gran parte degli spazi antropizzati contemporanei.

B. Mi piace questa visione del cemento armato come “fatto sociale totale”, mi sembra una buona sintesi dei concetti che abbiamo trattato nel nostro breve dialogo. Direi a questo punto di chiudere queste note, consapevole che si potrebbe andare avanti ancora a lungo e constatando, devo dire con stupore, che i nostri mondi sono molto più vicini di quanto potessi immaginare.

Note

[a] Antonello Ciccozzi è Professore associato di Antropologia Culturale (Università degli Studi dell’Aquila), tra i suoi principali interessi di ricerca vi è la percezione del rischio da una prospettiva antropologica.
[b] Andrea Barocci è Ingegnere libero professionista, si occupa di strutture e rischio sismico sia in ambito professionale che come componente di Organi Tecnici, Commissioni e Associazioni. Autore, Docente, Blogger.

[1] Per un orientamento di base sulla tematica dell’analisi antropologica del rischio, si possono vedere: M. Douglas, Come percepiamo il pericolo: antropologia del rischio, Milano, Feltrinelli, 1991; E. R. Quarantelli, Disasters: theory and research, Sage Publications, London – Beverly Hills, 1978; A. Oliver-Smith A. (ed), Natural disasters and cultural responses, Dept. of Anthropology, College of William and Mary, Williamsburg, 1986; G. Ligi, Antropologia dei disastri, Roma-Bari, Laterza, 2009.

[2] Si può notare che questa formula è quella attualmente adottata dalla Protezione civile italiana.
[3] In proposito è utile precisare che, muovendoci, appunto, tra ponti materiali e ponti simbolici, nella stesura di questo testo si è optato per un approccio costitutivamente interdisciplinare; a partire dalla scelta espositiva di evitare il co-autoraggio nella forma e nella convenzione stilistica – prevalente in ambito scientifico – della fusione artificiosa di due prospettive nel filo narrativo unico e indistinto della scrittura “a quattro mani”. Al contrario, abbiamo preferito “passarci la palla”; ossia praticare un percorso apertamente alternato e dichiaratamente dialogico. Si tratta in tal senso di “mettersi in gioco” affacciandosi al limite dei propri campi di sapere, per un “approccio di confine”; di prendere seriamente la possibilità di collocarsi di fronte all’alterità disciplinare di un sapere esperto che non è il proprio; e, rispetto a un oggetto d’interesse comune, dire e domandare: “il mio metodo mi suggerisce questo, cosa ne pensi dal tuo punto di vista metodologico?”.

Ciò significa, almeno teoricamente, tracciare un percorso orientato a una qualche convergenza di fondo; ma che anche sappia fare di eventuali divergenze qualcosa di più di un “rumore di fondo” da eliminare dall’esposizione; questo si può fare o proseguendo dalla sintesi di un punto d’incontro, o ripartendo dal concordare più o meno esplicitamente di riconnettersi su un versante della biforcazione restante da ogni passaggio non riuscito, come punto di partenza per un nuovo itinerario. Si vuole in questo modo intendere il confronto interdisciplinare come occasione di arricchimento reciproco in un “gioco di specchi” cogente che possa darsi senza il bisogno dissolvere il processo di “botta e risposta” che sostanzia qualsiasi brain storming efficace. Questo provando a produrre una qualche amplificazione prospettica proprio dall’interrelazione tra diversi campi di sapere, proponendo assunti, elementi, prospettive del proprio orizzonte disciplinare nello sforzo volto a innescare una quale risonanza con uno specialista di un’altra disciplina che, riflessivamente, fa lo stesso.

[4] Si veda in merito: S. Borutti, Filosofia delle scienze umane. Le categorie dell’Antropologia e della Sociologia, Bruno Mondadori, Milano, 1999.

[5] Cfr.: A. Ciccozzi, Parola di scienza – Il terremoto dell’Aquila e la Commissione Grandi Rischi: un’analisi antropologica, DeriveApprodi, Roma, 2013; A. Ciccozzi, Il terremoto dell’Aquila e il processo alla Commissione Grandi Rischi: note antropologiche”, in, Antropologia applicata, a cura di, A. L. Palmisano, Pensa editore, Lecce, 2014; A. Ciccozzi, “Forms of truth in the trial against the Commission for Major Risks- Anthropological notes”, in Archivio Antropologico Mediterraneo online, a cura di, M. Benadusi e S. Revert, anno XIX, no. 18 (2), 2016.

[6] Questo discorso rimanda a un arco lungo di riflessioni che, limitatamente agli autori fondamentali, tracciano un arco che arriva a Latour, partendo da Kuhn e Popper e passando per le posizioni radicalmente critiche di Feyerabend. Come principali testi di riferimento si pensi a: T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1969; K. Popper, Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza, Einaudi, Torino, 1969; K. Popper, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1985; P. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1979; P. Feyerabend, La scienza in una società libera, Feltrinelli, Milano,1981; P. Feyerabend, I limiti della ragione, Il Saggiatore, Milano, 1983; P. Feyerabend, Dialogo sul metodo, Laterza, Roma-Bari,1993; B. Latour, Il culto moderno dei fattici, Meltemi, Milano, 2017; B. Latour, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Cortina Raffaello, Torino, 2000; B. Latour, Cogitamus. Sei lettere sull’umanesimo scientifico, Il Mulino, Bologna, 2013; B. Latour, Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano, 2015.

[7] Cfr.: A. Ciccozzi, “«Com’era dov’era» Tutela del patrimonio culturale, sicurezza sismica degli edifici all’Aquila”, in, Etnografia e ricerca qualitativa, n°2, Il Mulino, Bologna, 2015.
[8] Ho discusso la tematica del “rassicurazionismo” nei testi che ho prima citato sul processo alla Commissione Grandi Rischi.
[9] Cfr.: M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 1965.
[10] Cfr.: T. Ingold, Ecologia della Cultura, Meltemi, Milano 2016.

Articolo Sicurezza delle costruzioni: riconoscere la pericolosità per diminuire il rischio di Ediltecnico.

Source: Ediltecnico.it

Ascensore in condominio, indispensabile per accessibilità: è legittimo

L’installazione di un ascensore in condominio che concorre ad eliminare le barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte del bene comune, va considerata indispensabile in ordine all’accessibilità e all’effettiva abitabilità dell’appartamento e quindi rientra nelle facoltà spettanti ai singoli condomini. Il condominio non può opporsi all’ampliamento della scala resosi necessario per realizzare l’ascensore. Ecco il contenuto di quanto ribadito nell’ordinanza n. 31462 della Cassazione.

Ascensore in condominio, l’ordinanza della Cassazione

La Corte di Cassazione, tramite l’ordinanza n. 31462 pubblicata il 5 dicembre 2018,  ha chiarito che l’ampliamento di una scala padronale determinato dall’esigenza di consentire la realizzazione di una sopraelevazione del preesistente impianto di ascensore, indispensabile per garantire la reale abitabilità di un edificio, non può essere vietata per una disposizione del regolamento condominiale che ne subordini l’esecuzione all’autorizzazione del condominio, in particolar modo facendo riferimento al principio della “solidarietà condominiale” alla quale ci si deve improntare.

Ascensore in condominio, il caso

La vicenda ha origine da un ricorso in Tribunale promosso da un gruppo di condomini che miravano a dichiarare illegittimo l’ascensore realizzato da altri condomini e chiedevano che questi ultimi fossero condannati, oltre al ripristino dello stato dei luoghi, anche al risarcimento dei danni. Dall’altra parte, i convenuti avanzavano la richiesta di risarcimento dei danni scaturiti dal ritardo nell’esecuzione dell’opera.

Il Tribunale procedeva a rigettare entrambe le domande e la Corte di Appello a confermare la pronuncia di primo grado. In sede di appello veniva specificato che comunque, in merito alla riduzione dello spazio utile a disposizione, era possibile garantire il passaggio di persone e di cose, biciclette e scooter, nonché il corretto rapporto di aeroilluminazione, realizzando lavori di entità modesta, dei quali si sarebbero assunte le spese a loro carico i condomini interessati.

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Ascensore in condominio, espressione di un principio di solidarietà sociale

I condomini ricorrenti non si arrendevano e tramite il ricorso in Cassazione, sostenevano che ci si trovasse difronte ad un’ “innovazione vietata”. La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, condannando i ricorrenti al rimborso delle spese di giudizio e ha confermato la decisione dei giudici di appello sulle questioni tecniche. Ha ribadito che l’installazione di un ascensore allo scopo di eliminare le barriere architettoniche, anche se viene eseguita da un condomino sulla parte di un bene comune, va considerata necessaria per garantire l’accessibilità dell’immobile e l’effettiva abitabilità dell’appartamento e quindi fa parte delle facoltà concesse ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 del Codice civile.

In aggiunta, ha sottolineato che, in materia di eliminazione delle barriere architettoniche, la legge n. 13 del 1989 rappresenta l’espressione di un principio di solidarietà sociale e mira a favorire l’accessibilità agli immobili nell’interesse collettivo. Quindi, l’ampliamento della scala padronale con lo scopo di dar spazio ad un ascensore, non può essere bloccata in funzione di una disposizione del regolamento del condominio che faccia dipendere la sua esecuzione dall’autorizzazione condominiale.

Il principio di solidarietà condominiale a cui si fa riferimento consiste nel rispetto dei vari interessi, tra cui anche quello vantato dalle persone disabili o portatrici di handicap, in merito all’abbattimento delle barriere architettoniche: un diritto fondamentale che non dipende dalla loro effettiva utilizzazione degli edifici interessati, ma che comunque attribuisce il carattere della legittimità all’intervento innovativo medesimo, a condizione che lo stesso concorra a diminuire le condizioni di disagio nell’utilizzo dell’abitazione, considerata bene primario, se non proprio ad eliminare totalmente gli ostacoli.

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Obblighi e responsabilità dell' amministratore di condominio e dei condòmini

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Source: Ediltecnico.it

Abusi edilizi, silenzio-assenso della Pa non blocca la demolizione

Non è sufficiente che si verifichi il silenzio-assenso da parte della Pubblica Amministrazione in merito alla domanda di sanatoria, per determinare il dovere del giudice dell’esecuzione a revocare o a sospendere l’ordine di demolizione emesso dal giudice di merito con una sentenza definitiva, a proposito di una questione riguardante abusi edilizi. Questo è il contenuto della sentenza n. 55028 depositata ieri dalla Corte di Cassazione.

Abusi edilizi, è necessario il rilascio della concessione o del permesso di costruire in sanatoria

La sentenza n. 55028 della Corte di Cassazione ribadisce che la presentazione della domanda di sanatoria in riferimento ad abusi edilizi commessi, se è seguita solo dal silenzio-assenso dell’amministrazione locale, non determina il fatto che il giudice sia obbligato a emanare la revoca o la sospensione dell’ordine di demolizione già impartito dal giudice di merito con sentenza definitiva. Quindi la sola presentazione della domanda di sanatoria non è sufficiente per bloccare la demolizione, la Corte di Cassazione sottolinea che, per limitare il sindacato del giudice, occorre che venga rilasciata la concessione o il permesso di costruire “in sanatoria”. In tal caso, il reato edilizio si estingue e il giudice può limitarsi solo alla verifica della conformità delle opere oggetto della sanatoria al titolo abilitativo.  In caso contrario, il giudice dell’esecuzione è tenuto a prendere in esame la domanda di sanatoria che è stata presentata con lo scopo di regolarizzare e conservare le opere abusive, sia sotto l’aspetto formale che sostanziale, ed è quindi chiamato a pronunciarsi anche sull’ordine di demolizione emanato dal tribunale con sentenza definitiva, in quanto spetta al giudice medesimo decidere se i manufatti abusivi in oggetto vanno mantenuti o demoliti.

Abusi edilizi, il giudice deve verificare la validità del titolo abilitativo

Il ricorrente aveva presentato ricorso in quanto riteneva che il giudice dell’esecuzione avesse superato la soglia dei propri poteri e avesse invaso la sfera di competenza dell’amministrazione locale. La Corte di Cassazione ha giudicato inammissibile tale ricorso, in quanto «il giudice dell’esecuzione, in presenza di una domanda di sanatoria non deve limitarsi a prenderne atto ai fini della sospensione o della revoca dell’ordine di demolizione, impartito con la sentenza di condanna, ma deve esercitare il potere-dovere di verifica della validità ed efficacia del titolo abilitativo, valutando la sussistenza dei presupposti per l’emanazione dello stesso e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio oltre, ovviamente, alla rispondenza di quanto autorizzato con le opere destinate alla demolizione, con l’ulteriore precisazione che il rispetto dei principi generali fissati dalla legislazione nazionale richiesto per le disposizioni introdotte dalle leggi regionali riguarda anche eventuali procedure di sanatoria».

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Abusi edilizi, prevale il Testo Unico Edilizia rispetto alla norma regionale

Secondo la tesi sostenuta dal ricorrente, la regolarizzazione delle opere abusive, in base alla Legge regionale siciliana 16 aprile 2003, n. 4, sarebbe stata raggiunta con il passare del tempo, dopo la presentazione della sua domanda di sanatoria riguardante opere qualificate come “precarie” e “già esistenti” e ciò avrebbe determinato il cambiamento della situazione giuridica che stava alla base dell’ordine di demolizione.

La Corte di Cassazione, invece, ratifica l’operato del giudice dell’esecuzione e convalida la sua decisione di privilegiare il Testo unico dell’edilizia rispetto alla normativa regionale, nella valutazione della validità del silenzio-assenso della Pa e dell’esatto momento in cui si considera estinto un abuso edilizio. Infine, reputa legittimo il giudizio di merito contemplato nella sentenza impugnata, in base al quale le opere non potevano essere considerate “precarie”, nemmeno applicando il criterio funzionale e non strutturale che viene adottato dalla Regione siciliana, in casi eccezionali, poiché non si può interpretare in senso lato.

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Come sanare gli abusi edilizi

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L’opera contiene gli strumenti utili al professionista per affrontare le criticità legate agli abusi edilizi e alle sanatorie, anche in considerazione della recente giurisprudenza e delle significative novità normative in materia, tra le quali si segnalano:- il D.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31…


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Source: Ediltecnico.it

Edilizia scolastica, Fondo Kyoto esteso ad impianti sportivi pubblici

Il 4 dicembre 2018 è stato approvato dalla Commissione Bilancio 2019, un emendamento alla bozza di legge di Bilancio 2019, che contempla la possibilità degli impianti sportivi pubblici di beneficiare dei finanziamenti agevolati a valere sul Fondo Kyoto dedicati all’efficienza energetica dell’edilizia scolastica. Anche gli interventi di efficientamento energetico e quelli di risparmio idrico rientreranno tra gli interventi finanziabili.

Edilizia scolastica, efficienza energetica e idrica

Con l’approvazione dell’emendamento è stato aggiunto l’articolo 54-bis che mira a regolare gli interventi, sovvenzionati tramite le risorse del Fondo Kyoto. Si tratta di interventi rivolti agi edifici scolastici e universitari pubblici. Nello specifico, i finanziamenti a tasso agevolato conferiti ai soggetti pubblici proprietari delle scuole, vengono allargati pure per la realizzazione di interventi di efficientamento e risparmio idrico. Viene, inoltre, estesa anche la platea di coloro che possono beneficiare dei finanziamenti a tasso agevolato per l’efficientamento energetico e idrico, includendo gli impianti sportivi di proprietà pubblica, gli ospedali e i servizi socio-sanitari, specificando che gli impianti sportivi di proprietà pubblica non facciano parte del Piano per la realizzazione di impianti sportivi nelle periferie urbane.

L’articolo 9 del DL 91/2014 contempla, a valere del Fondo Kyoto, che la Cassa depositi e prestiti S.p.A possa conferire finanziamenti a tasso agevolato (con limite fissato a 350 milioni di euro), destinati agli interventi di incremento dell’efficienza energetica degli edifici scolastici, strutture universitarie e asili nido.

Emendamento allarga platea per Green economy

Attraverso l’emendamento viene allargata anche ai soggetti pubblici, la concessione dei finanziamenti a tasso agevolato, a valere sul Fondo Kyoto per la promozione dei progetti legati alla Green economy. Allo stesso tempo viene cancellata la condizione inerente alle assunzioni dei giovani nel settore della green economy, volta ad attingere ai finanziamenti agevolati dedicati ai progetti di investimento. Prima di questo emendamento la concessione dei finanziamenti a tasso agevolato riguardava solo i soggetti privati. L’articolo 57 del DL 83/2012, contempla, infatti, all’interno dell’ambito del Fondo Kyoto, la concessione di questi finanziamenti ai soggetti privati che lavorano in determinati settori.

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Impianti sportivi, altro emendamento approvato

La Commissione, inoltre, sempre durante la medesima seduta, ha deciso di approvare anche un ulteriore emendamento che si chiedeva di promuovere la ristrutturazione e la costruzione di impianti sportivi pubblici. Grazie a questo provvedimento, il fondo per l’anno 2019 viene incrementato di 12.829.176,71 euro. Il fondo era stato istituito con la Legge 1295/1957 e grazie a ciò, l’Istituto per il credito sportivo ha sempre contribuito agli interessi sui mutui a vantaggio di enti pubblici locali e altri enti pubblici che si impegnano a ampliare, attrezzare, costruire e migliorare impianti sportivi.

Sull’argomento consigliamo:

Casi svolti di adeguamento e miglioramento sismico di edifici nuovi ed esistenti

Casi svolti di adeguamento e miglioramento sismico di edifici nuovi ed esistenti

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Quest’opera nasce con l’obiettivo di realizzare uno strumento pratico di riferimento per il tecnico progettista che si trovi a operare su costruzioni, nuove o esistenti, in zona sismica. Il manuale presenta una serie di significative esperienze tratte da casi reali, che descrivono gli…


Articolo Edilizia scolastica, Fondo Kyoto esteso ad impianti sportivi pubblici di Ediltecnico.

Source: Ediltecnico.it

Decadenza permesso di costruire, una foto aerea di Google Earth prova il mancato inizio lavori?

Come ogni settimana, ecco la selezione delle sentenze di edilizia e urbanistica pubblicate tra il 29 gennaio e il 2 di febbraio. Gli argomenti oggetto delle pronunce sono: Decadenza permesso di costruire per mancato inizio lavori (insufficienza di una foto aerea Google Earth) Tettoia (titolo edilizio necessario), Soppalco (titolo edilizio necessario), Abusi edilizi (affidamento nell’autore, esclusione e, se su suolo pubblico, necessità ordine di demolizione, non necessità della comunicazione di avvio del procedimento), SCIA (poteri inibitori, non necessità della comunicazione di avvio del procedimento), Volturazione del titolo edilizio (effetto liberatorio rispetto agli oneri concessori).

Decadenza permesso di costruire per mancato inizio lavori: insufficienza di una foto aerea Google Earth

Estremi della sentenza: TAR Sardegna, sez. II, sent. 31 gennaio 2018, n. 54
Massima: Una foto aerea di Google Earth non è sufficiente per dichiarare la decadenza del permesso di costruire per mancato inizio dei lavori

L’onere della prova del mancato inizio dei lavori assentiti con il permesso di costruire incombe al Comune che ne dichiara la decadenza, alla stregua del principio generale in forza del quale i presupposti dell’atto adottato devono essere accertati dall’autorità emanante.

La giurisprudenza ritiene che le foto aeree di Google Earth non assicurino con certezza la data del rilevamento; ad esempio, è stato affermato che “il Collegio non ritiene che i rilevamenti tratti da Google Earth prodotti in giudizio possano costituire, di per sé ed in assenza di più circostanziati elementi che la ricorrente non ha fornito, documenti idonei al prefato scopo e ciò, in particolare, in considerazione della provenienza del suddetto rilevamento, delle incertezze in merito all’epoca di risalenza delle immagini visualizzate (come emerge dallo stesso sito – alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it – per impostazione predefinita il software “visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per una determinata località”, con la precisazione che “a volte potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide rispetto a quelle più recenti”), della genericità delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del rilevamento medesimo” (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, sent. 27 novembre 2014 n. 6118).

Di conseguenza, il provvedimento che dichiara la decadenza del permesso di costruire basato esclusivamente su una foto aerea Google Earth è carente di motivazione e, conseguentemente, illegittimo.

Tettoia, titolo edilizio necessario

Estremi della sentenza: TAR Campania, sez. VII Salerno, sent. 30 gennaio 2018 n. 649
Massima: Serve il permesso di costruire per le tettoie di rilevanti dimensioni

Secondo una consolidata giurisprudenza, (ex multis, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. IV, 19 dicembre 2005, n. 20427; 29 luglio 2005, n. 10479; 2 dicembre 2004, n. 18027), la realizzazione di una tettoia è soggetta al preventivo rilascio del permesso di costruire quando essa, pur avendo carattere pertinenziale rispetto all’immobile cui accede, incide sull’assetto edilizio preesistente.

Di conseguenza, è necessario il suddetto titolo edilizio per la realizzazione di 4 tettoie di rilevanti dimensioni (mq 19 circa; mq 31 circa; mq 86 circa; mq 58 circa), come tali certamente idonee ad incidere sull’assetto edilizio.

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Soppalco, titolo edilizio necessario

Estremi della sentenza: TAR Campania, sez. IV Napoli, sent. 31 gennaio 2018 n. 693
Massima: È necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell’immobile preesistente, con incremento delle superfici dell’immobile e, in prospettiva, ulteriore carico urbanistico

Com’è noto, la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto. In linea di principio, è necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell’immobile preesistente, ai sensi dell’art. 3, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, con incremento delle superfici dell’immobile e, in prospettiva, ulteriore carico urbanistico; si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile (Consiglio di Stato, sez. VI, 02/03/2017, n. 985).

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In linea con l’indirizzo suindicato si dispiega la giurisprudenza che ha, di recente, evidenziato come la realizzazione di un soppalco non rientra nell’ambito degli interventi di restauro o risanamento conservativo, ma nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia, qualora determini una modifica della superficie utile dell’appartamento, con conseguente aggravio del carico urbanistico (cfr. Tar Sardegna, Sez. II, 23 settembre 2011, n. 952; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 11 luglio 2011, n. 1863; Tar Campania, Napoli, Sez. II, 21 marzo 2011, n. 1586).

Abusi edilizi: affidamento nell’autore, esclusione

Estremi della sentenza: TAR Lombardia, sez. I Milano, sent. 29 gennaio 2018 n. 231
Massima: La commissione di abusi edilizi non può ingenerare nell’autore dell’abuso alcun affidamento, e ciò a prescindere dal decorso del tempo che comunque non estingue il potere sanzionatorio della p.a., che al contrario è tenuta anche penalmente a perseguire le violazioni edilizie in qualunque tempo accertate

La giurisprudenza amministrativa ha chiarito (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. IV, 28 febbraio 2017, n. 908; Sez. IV, 12 ottobre 2016, n. 4205; Sez., IV, 31 agosto 2016, n. 3750) che la commissione di abusi edilizi non può ingenerare nell’autore dell’abuso alcun affidamento, e ciò a prescindere dal decorso del tempo che comunque non estingue il potere sanzionatorio della p.a., che al contrario è tenuta anche penalmente a perseguire le violazioni edilizie in qualunque tempo accertate.

Peraltro, con una recente decisione, il Consiglio di Stato (cfr. Adunanza plenaria, sentenza 17 ottobre 2017, n. 9) ha confermato questo indirizzo giurisprudenziale e ne ha fornito, ove fossero mancate, ulteriori ragioni argomentative, chiarendo che: “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino.

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Abuso edilizio su suolo pubblico: necessità dell’ordine di demolizione e non necessità della comunicazione di avvio del procedimento

Estremi della sentenza: TAR Campania, sez. III Salerno, sent. 30 gennaio 2018 n. 654
Massima: L’ordine di demolizione è l’unica sanzione possibile per l’abuso realizzato su suolo di proprietà pubblica e non deve essere proceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento

Secondo la giurisprudenza, la circostanza che l’abuso sia stato realizzato su suolo di proprietà dello Stato determina l’applicazione dell’art. 35 del DPR n. 380/01, che in tale ipotesi prevede, quale unica ed esclusiva conseguenza, la demolizione a spese del responsabile.

La norma non contempla alcuna ipotesi alternativa alla demolizione, essendo evidentemente preordinata a evitare l’indebito utilizzo del bene demaniale per cui, nei casi di edificazione “contra legem”, non occorre alcun accertamento ulteriore e occorre verificare solo che trattasi di suolo di proprietà pubblica e che nessun titolo è stato rilasciato. Pertanto, dall’abusività dell’opera scaturisce con carattere vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale sua natura non esige una specifica motivazione o la comparazione dei contrapposti interessi, né deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento o tener conto del lasso di tempo intercorso (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. V, 28 aprile 2014 n. 2196; T.A.R. Campania, sez. III, 14.4.2015, n. 2098).

SCIA: poteri inibitori, non necessità della comunicazione di avvio del procedimento

Estremi della sentenza: TAR Veneto, sez. III, sent. 31 gennaio 2018 n. 95
Massima: Per l’esercizio dei poteri inibitori in materia di SCIA non è richiesta la comunicazione di avvio del procedimento né il preavviso di rigetto

La natura giuridica della segnalazione certificata di inizio attività – che non è una vera e propria istanza di parte per l’avvio di un procedimento amministrativo poi conclusosi in forma tacita, bensì una dichiarazione di volontà privata di intraprendere una determinata attività ammessa direttamente dalla legge – induce ad escludere che l’autorità procedente debba comunicare al segnalante l’avvio del procedimento o il preavviso di rigetto ex art. 10 bis della legge n. 241/1990 prima dell’esercizio dei relativi poteri di controllo e inibitori (cfr. T.A.R. Campania Napoli n. 3896/2017, T.A.R. Catanzaro (Calabria), sez. II, 5 marzo 2015, n. 478, Consiglio di Stato, sez. IV, 19 giugno 2014, n. 3112, 14 aprile 2014, n. 1800 e 25 gennaio 2013, n. 489).

Il denunciante la SCIA è titolare di una posizione soggettiva originaria che rinviene il suo fondamento diretto ed immediato nella legge che non ha bisogno di alcun consenso della. P.A. e, pertanto, la segnalazione di inizio attività non instaura alcun procedimento autorizzatorio destinato a culminare in un atto finale di assenso, espresso o tacito, da parte dell’amministrazione. In assenza di procedimento, non c’è spazio per la comunicazione di avvio, per il preavviso di rigetto o per atti sospensivi da parte dell’amministrazione (T.A.R. Bolzano, (Trentino-Alto Adige), sez. I, 04/03/2016, n. 79).

Volturazione del titolo edilizio: effetto liberatorio rispetto agli oneri concessori

Estremi della sentenza: TAR Calabria, sez. I Catanzaro, sent. 29 gennaio 2018 n. 277
Massima: Solo con la volturazione del titolo edilizio concordata con l’amministrazione il precedente titolare del bene può essere liberato dal pagamento degli oneri concessori

I trasferimenti della proprietà del bene su cui incide l’attività edilizia assentita non hanno efficacia nel rapporto pubblicistico che sorge per effetto del rilascio del provvedimento di assenso, salvo che non vi sia una novazione soggettiva, come tale però concordata con l’amministrazione. Come indicato in passato dalla giurisprudenza, infatti, (T.A.R. Toscana, Sez. III, 12 marzo 2014 n. 493, T.A.R. Molise, 25 luglio 2012 n. 27), “L’originario titolare di un permesso di costruire può liberarsi dagli obblighi connessi al titolo, nel caso in cui alieni il terreno da edificare — ovvero l’edificio in costruzione — cedendo il titolo edilizio mediante apposita volturazione. Con tale atto, il Comune autorizza l’acquirente a subentrare nella titolarità del permesso di costruire e nello stesso tempo accetta l’accollo degli oneri concessori da parte dell’acquirente stesso, con liberazione del precedente titolare”.

In collaborazione con www.studiolegalepetrulli.it

Gli interventi edilizi: definizioni e titoli abilitativi - II edizione

Gli interventi edilizi: definizioni e titoli abilitativi – II edizione

M. Petrulli, A. Mafrica, 2017, Maggioli


Articolo Decadenza permesso di costruire, una foto aerea di Google Earth prova il mancato inizio lavori? di Ediltecnico.

Source: Ediltecnico.it

Impermeabilizzazioni in edilizia: al tecnico chiedete il PERCHÈ delle cose

Sempre più ci troviamo a affrontare emergenze e sempre nel momento sbagliato. Passare giorni di festa a casa con il tetto che perde mentre fuori c’è la tempesta, essere malati con il vicino che si lamenta perché il balcone gocciola non è certamente la migliore delle situazioni; eppure è la normalità.

Proprio questa mattina un amico applicatore mi ha chiesto: perché non mi trovi una certificazione vera che mi possa finalmente differenziare da tutti gli altri? Certificazioni ce ne sono tante, ma nessuna è unanimemente accettata. Ci sono le norme UNI (che qualche avvocato smonta immediatamente perché non liberamente accessibili), ci sono i certificati dati dai produttori ma il loro senso è più commerciale che altro. Effettivamente non esiste nulla che possa qualificare un posatore, se non la propria storia e la voglia di evolversi.

Impermeabilizzazioni in edilizia: che caratteristiche deve avere il tecnico?

A dire il vero, esiste una piccola cosa che potrebbe essere utile: la Camera di Commercio tiene un albo che si chiama “dei Periti e degli Esperti”. Si tratta di un elenco, di tantissime materie eterogenee, dove le persone (è personale) possono iscriversi provando di essere capaci di trattare una determinata materia. Per l’iscrizione (è molto “cheap”, basta un bollo da 16€) bisogna presentare non solo il curriculum scolastico ma anche le credenziali tecniche (io ad esempio oltre alle relazioni più importanti ho portato anche il mio libro sulla progettazione dei dettagli impermeabilizzativi) che possono essere formate da tutta la documentazione che si può avere. Particolare importante: il primo documento di credenziale tecnica (una perizia o relazione tecnica) deve avere almeno 5 anni e bisogna dimostrare che non sia stata un’attività occasionale.

Peccato che questa iscrizione valga solo per la parte peritale. Certo, una persona che dimostra di essere capace in una singola materia per fare una perizia dovrebbe essere capace anche di progettare e, quindi, di risolverci i problemi al tetto o al terrazzo. Non è sempre così: chi sono i veri e propri esperti nel settore impermeabilizzazioni?

Beh, teoricamente tutti coloro che trattano la materia: tecnici aziendali, venditori, applicatori e progettisti che si sono formati autonomamente (non esiste un corso universitario o altro sulla progettazione di applicazioni impermeabili). Sinceramente la questione non è cosa fa un esperto per vivere ma quale sia la sua moralità professionale e se questa possa andare contro il suo lavoro principale.

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Il venditore perito e il perito applicatore

Vi faccio un esempio: se un venditore di una nota marca di prodotti per impermeabilizzazioni viene chiamato come perito, perché riconosciuto come vero esperto, e si trova davanti a un difetto conclamato del prodotto che lui stesso ha venduto, come si comporta? È abbastanza onesto da dare contro l’azienda che gli da da mangiare? È abbastanza onesto da rinunciare all’incarico per evidente conflitto d’interessi?

Altra situazione, forse peggiore, è il caso in cui il perito chiamato sia un applicatore: cosa succede se il cantiere dove viene interpellato è un lavoro che ha perso a causa di un’offerta migliore di un concorrente? Siamo sicuri che sia così forte da non approfittare della sua momentanea situazione di potere? Siamo sicuri che sia veramente competente nella materia e non sia solo ed esclusivamente una persona formatasi nei corsi commerciali di una nota marca di prodotti?

Insomma la scelta è veramente difficile. A oggi il solo modo di poter scegliere un vero e proprio tecnico è quella di poter consultare il suo curriculum vitae e di poterlo verificare. Visto che quanto una persona fa nella propria vita non sempre è controllabile, l’unico mezzo per verificare le sue capacità è controllare i suoi movimenti sui social network o nelle occasioni pubbliche. Soprattutto, ricordatevi, la soluzione a tutte le vostre domande è un’altra domanda che dovete fare al tecnico che interpellerete: Perché?

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Impermeabilizzazioni in edilizia: perchè?

Perché è la domanda più potente del mondo! I bambini fanno questa domanda da piccoli per sapere come sono fatte le cose che imparano. Anche noi dobbiamo tornare un po’ bambini e non aver paura di chiedere perché quella che ci propongono è la soluzione opportuna! Se la risposta è titubante o lascia a desiderare o, semplicemente, è la copia di un depliant commerciale, lasciate perdere!

Solo chi è veramente esperto può rispondere a questa semplice ma potentissima domanda. A questo punto poco importa quale sia il suo mestiere, siete sicuri che è capace! Quindi vi esorto a fare una cosa: non abbiate paura di chiamare un esperto, non abbiate paura di pagare quanto chiede ma pretendete sempre una relazione scritta che spieghi in modo inequivocabile il perché certe cose avvengono e, soprattutto, il perché la soluzione proposta è quella giusta!

Buona vita a tutti… soprattutto asciutta!

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Source: Ediltecnico.it

Demolizione Abuso edilizio, quando prevale l’interesse pubblico

La delibera comunale che dichiara che esiste un interesse pubblico che sul ripristino dell’assetto urbanistico violato, bloccando la demolizione di un’opera abusiva (prevista dall’articolo 31, comma 5, del Testo unico dell’edilizia) deve spiegare tutte le specifiche esigenze che giustificano la scelta di non demolizione. Il giudice dell’esecuzione ha il potere di sindacare la scelta di non demolire.

Lo dice la Cassazione, che ha confermato l’ordinanza della Corte d’Appello di Salerno che aveva respinto l’istanza del proprietario di un manufatto abusivo volta a ottenere la sospensione dell’esecuzione dell’ordine di demolizione della stessa Corte territoriale.

Abuso edilizio: quando si può non abbattere per interesse pubblico

La Cassazione è quindi d’accordo con l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui il Consiglio comunale può dichiarare la prevalenza di interessi pubblici che ostacolo la demolizione dell’opera abusiva solo se:
– non c’è contrasto con rilevanti interessi urbanistici/ambientali;
– una deliberazione del Consiglio dichiara formalmente la sussistenza dei suddetti presupposti di non contrasto;
– c’è una dichiarazione di contrasto della demolizione con prevalenti interessi pubblici (Cassazione, Sezione III, sentenza 10 ottobre 2008, n. 41339).

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La linea di demarcazione fra opera edilizia legittimamente realizzata ed opera abusiva è spesso labile o di dubbia identificazione. Errare nella individuazione della fattispecie e del relativo procedimento può portare a gravi conseguenze giuridiche e giurisdizionali, anche penali. Questo…


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Source: Ediltecnico.it

Seminterrato: nelle volumetrie rientrano solo i locali fuori terra

Una società proprietaria di un edificio residenziale costruito nel ’70 e condonato con la 47/1985, composto da una sola unità immobiliare che occupa tutto il piano seminterrato e il piano rialzato, ha presentato un progetto di demolizione e ricostruzione, chiedendo di potersi avvalere del Piano Casa che prevede un premio del 35% della volumetria esistente. Come si calcola la volumetria esistente in questo caso? Bella domanda. Una sentenza del Tar Bari (1248/2017) ha tentato di risolvere il quesito.

Il Comune dopo 79 giorni ha emesso una nota di preavviso di rigetto perchè “nel calcolo della volumetria esistente è considerato in toto la volumetria del piano seminterrato e non solamente la parte fuori terra”. Il proprietario fa presente che, per determinare la base da cui partire per calcolare il premio volumetrica del 35%, la legge regionale sul piano casa autorizza tutti i volumi legittimamente realizzati, anche se condonati.

Tocchiamo appena la questione del diniego del permesso di costruire da parte del Comune. Il diniego è stato contestato dal proprietario e il Tar Bari, con la sentenza n. 1248/2017, ha sostenuto che il silenzio assenso sul permesso di costruire non è automatico ma subordinato a determinate questioni. Inoltre, il Tar ha sentenziato che il cittadino che vuole avvalersi del silenzio-assenso deve dimostrare di “avere tutte le carte in regola” e il nostro proprietario, invece, non ha dimostrato la conformità urbanistico-edilizia dell’istanza.

Seminterrato: come si fa il calcolo dei volumi?

Torniamo al calcolo dei volumi, che è l’argomento che ci interessa di più in questo articolo. Il Tar precisa che, il «volume dei fabbricati è determinato dalla somma dei prodotti delle superfici utili di ogni piano per le relative altezze lorde, misurate da pavimento a pavimento». In un intervento edilizio su immobile preesistente, per calcolare quale sia la volumetria assentibile, il punto di riferimento non è la volumetria di fatto esistente ma la volumetria legittimamente esistente (sentenza del Consiglio di Stato 5196/2016).

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Per quanto riguarda la volumetria interrata, il Tar ha precisato che i regolamenti edilizi per il calcolo dei volumi interrati dispongono in base alla destinazione d’uso, quando i volumi sono destinati a residenza, uffici o attività produttive. Se non ci sono disposizioni, nel calcolo del volume complessivo dell’edificio rientra anche il seminterrato solo per la parte che emerge dal piano di campagna.

Il Tar ha sottolineato anche l’irrilevanza del condono per il calcolo delle cubature assentite. L’istanza di condono permette di sanare le opere realizzate sine titulo e in contrasto con le prescrizioni urbanistiche ma questo non determina una deroga alla disciplina generale sul calcolo delle volumetrie che permetta di estendere i volumi fino a includere anche quelli realizzati nel piano terra.

E per le modalità di calcolo dei volumi? L’entrata in vigore della riforma Madia e, in particolare, delle definizioni standardizzate ha creato confusione: sono esatte le modalità di calcolo delle cubature assentite? I volumi interrati devono essere conteggiati o no? La pronuncia del Tar chiarisce almeno che solo i volumi fuori terra devono essere compresi nel calcolo delle volumetrie.

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Source: Ediltecnico.it

Con il BIM si può gestire il patrimonio immobiliare

L’attività di rappresentazione grafica e digitale dei manufatti del patrimonio immobiliare è complessa ma con il BIM è possibile. Le informazioni da gestire sono molte e l’utilizzo di procedure informatizzate è necessario per ridurre il rischio di errori e velocizzare l’attività. Al di là di questa complessità, dal 2009 tutte le amministrazioni pubbliche devono obbligatoriamente (dall’art. 2 comma 222 della Legge 191/2009 e art. 2 del Dlgs 118/2011) trasmettere al Ministero dell’Economia e delle Finanze l’elenco dei propri beni immobiliari, per pemettere la rendicontazione patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche a valori di mercato e una corretta gestione e alienazione del  patrimonio stesso.

BIM e gestione del patrimonio

Oggi, come dicevamo, si può censire e gestire il patrimonio immobiliare esistente in modo efficiente e interoperabile con il BIM: per la gestione del patrimonio, il BIM è inteso come un sistema in cui vengono raccolti determinati dati, per essere elaborati e resi noti ai responsabili della risorse patrimoniali.

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BIM e processo di manutenzione

Il BIM permette anche la gestione del processo manutentivo (Facility Management) che deve essere pianificato, gestito e controllato: la norma UNI 10951 definisce le linee guida per progettare, realizzare, usare e aggiornare i sistemi informativi per la gestione della manutenzione dei patrimoni immobiliari. Un’altra norma UNI, la 11337, ancora in fase di stesura, nelle parti 2 e 3, indicherà una metodologia per la denominazione e l’identificazione dei prodotti da costruzione e un modello operativo strutturato per raccogliere e archiviare dati e informazioni tecniche dei prodotti da costruzione.

Concludiamo quindi che il BIM non è solo uno strumento per la progettazione e cantierizzazione ex novo ma anche per la gestione e il controllo della manutenzione del patrimonio edilizio italiano. Un caso pratico? L’Università della Basilicata è tra i primi enti del Sud Italia che ha adottato la metodologia BIM per gestire il patrimonio immobiliare e i cespiti a servizio delle sedi di Potenza e Matera.

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Source: Ediltecnico.it